Altra misura. Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta
In una lettera inviata nel 1975 a Lucy Lippard, tra le più acute interpreti del Concettuale e dell’arte femminista, Ketty La Rocca esprime il disagio e il peso di lavorare in un ambiente artistico dove perdurano forti disparità tra uomo e donna: «Ancora, in Italia […] essere una donna e fare il mio lavoro è di una difficoltà incredibile». La «difficoltà incredibile» di cui parla La Rocca – la fatica di essere artista e donna – non è un malessere individuale, ma un fenomeno sociale che tocca, in misura differente, tutte le artiste attive nel nostro Paese tra gli anni Sessanta e Settanta: all’epoca, infatti, la presenza femminile nelle grandi rassegne espositive, nei concorsi d’arte, nelle collezioni pubbliche e private è esigua, quasi inesistente. Questa condizione di subalternità, in cui le donne sono costantemente penalizzate ed escluse da posizioni nevralgiche, inizia a mostrare i primi segni di cedimento proprio negli anni Settanta, quando la diffusione del femminismo produce una nuova consapevolezza critica (e autocritica) che spinge alcune artiste a ripensare il proprio ruolo nella società, a rivendicare spazio e accesso nei musei e nelle istituzioni, a denunciare la carenza di visibilità e le discriminazioni subite. Il sistema italiano rimane a lungo impermeabile alle esigenze manifestate dalle artiste donne e sono pochi/e i critici e le critiche militanti che nel corso del decennio accolgono le nuove istanze; sono ancora meno i luoghi e i centri istituzionali pronti a rispondere alle richieste delle donne. Scarsa, nel complesso, è anche la capacità delle artiste di fare fronte comune, soprattutto per la paura di essere “ghettizzate” (…) Le artiste presenti in questa mostra – Tomaso Binga, Diane Bond, Lisetta Carmi, Nicole Gravier, Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Paola Mattioli, Libera Mazzoleni, Verita Monselles, Anna Oberto e Cloti Ricciardi – hanno storie e percorsi diversi e ognuna di loro ha affrontato il rapporto con la militanza con un’ottica personale: Paola Mattioli, Diane Bond e Cloti Ricciardi, ad esempio, hanno partecipato all’esperienza dei gruppi di autocoscienza, mentre Nicole Gravier e Tomaso Binga hanno accolto le idee del femminismo senza un coinvolgimento diretto nelle attività dei collettivi. Al di là delle posizioni individuali, ciò che accomuna la ricerca delle artiste presenti in mostra è l’uso militante e politico della fotografia, concepita come uno strumento per raccontare la realtà attraverso l’assunzione di uno sguardo sessuato che esplora le differenze di genere; la fotografia diviene anche un mezzo per costruire relazioni, scambi e nuove strategie di rappresentazione del femminile. Queste artiste hanno infatti adottato la fotografia sia per decostruire gli stereotipi di genere e i cliché sessisti insiti nel linguaggio e nella comunicazione mediatica, sia per esplorare i nessi tra corpo e identità femminile e rivendicare le istanze del personale e del vissuto. Nel contestare le immagini della donna diffuse nella cultura visiva occidentale, dove il corpo femminile è abitualmente sottoposto a un processo di reificazione, il medium fotografico è per queste artiste un alleato prezioso: la peculiare natura di indice della fotografia – la sua specifica contiguità con il reale (teorizzata proprio nella seconda metà degli anni Settanta da Rosalind Krauss) – fa sì che l’immagine fotografica si presenti come una traccia sensibile del corpo, luogo in cui si inscrivono non soltanto i segni dell’identità biologica, ma anche quelli legati al ruolo sociale e pubblico.(…)
Ketty La Rocca, Lucia Marcucci o Nicole Gravier scelgono la fotografia, strumento abitualmente considerato trasparente e “obiettivo”, per sconfessarne l’apparente mimetismo attraverso pratiche di decostruzione del linguaggio, in particolare di quello mediatico (rotocalco, pubblicità, fotoromanzo). I lavori di queste artiste sono indicativi del desiderio di dissacrare, con sguardo ironico e straniante, i canoni e gli stereotipi delle immagini del femminile diffuse dai media, in cui la donna, rappresentata come oggetto del desiderio dell’uomo, è sempre bella, giovane e disponibile. Le opere di Tomaso Binga, Cloti Ricciardi, Libera Mazzoleni e Verita Monselles demistificano, invece, il sessismo insito nel linguaggio stesso, dove il femminile è concepito in funzione del maschile, e sperimentano la possibilità di formulare un linguaggio altro, fondato in primo luogo sul corpo. Un lavoro come Oggi spose (1977) di Binga, ad esempio, pone l’accento sull’usanza da parte della donna di adottare il cognome del coniuge, al fine di evidenziare come la condizione di assenza e di perdita legata al femminile si espliciti nel linguaggio. Quest’opera, inoltre, prende di mira la simbologia stereotipata connessa all’appartenenza di genere: la donna è ritratta in abito bianco, con aria romantica e sognante; mentre l’uomo (interpretato anche lui dall’artista) posa con espressione seria, circondato dagli strumenti del lavoro. Il limite di confinare l’identità unicamente entro il binomio uomo-donna è reso evidente anche dalla serie dei Travestiti di Lisetta Carmi, pubblicata nel 1972 nel libro omonimo; questi scatti documentano l’esistenza di modelli di vita e comportamento posti al di fuori della tradizionale dualità di genere, e per questo socialmente discriminati. Il libro all’epoca fece scandalo, e gli unici ad avere il coraggio di presentarlo furono Mario Mieli e Dacia Maraini. Il medium fotografico, tuttavia, non viene usato soltanto per denunciare cliché mediatici e culturali o rituali pubblici solennizzati proprio dalla fotografia (come il matrimonio), ma anche per avviare un’attività di raccolta e recupero di immagini legate al vissuto e alla memoria individuali, nell’ottica di una rivendicazione del ruolo politico del personale. La fotografia, e in particolare la Polaroid, ha un ruolo cruciale nel rappresentare il vissuto familiare delle artiste donne: nella serie Diario v’ideo senti/mentale (1974), ad esempio, Anna Oberto esplora la dimensione della maternità riportando le tracce dell’apertura al mondo e al linguaggio vissuta dal figlio Eanan. La maternità è al centro anche della sequenza Sara è incinta (1977) di Paola Mattioli, dove la gravidanza è rappresentata come un momento intenso di scambio e confidenza tra donne. Mattioli adotta, infatti, la fotografia come strumento utile a porre in discussione i modelli vigenti di rappresentazione del femminile (molto spesso fatti propri e interiorizzati dalla donna stessa), attraverso la creazione di rapporti umani fondati sulla reciprocità, sul gioco e sulla sorellanza.(…)
Raffaella Perna
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