Intervista a Riccardo Guarneri - Contemporart n.82
Tensioni cromatiche e variazioni continue di Riccardo Guarneri
L'inizio del suo fantastico viaggio artistico è datato nell'anno 1963 con la formazione del Gruppo Tempo 3 a Genova con gli artisti: Bargoni, Carreri, Esposto, Stirone e l'anno successivo con l'adesione di Bompadre.
Un Terzo Tempo come superamento delle condizioni espressive che hanno caratterizzato gli anni '60, dal concretismo all'informale? Un Terzo Tempo come negazione di una cultura pre-industriale anche nella sua forma espressiva? Oppure un principio di azzeramento sia dell'azionismo gestuale sia del neorealismo figurativo attraverso la rivalutazione del colore come essenza fondativa del fare pittura?
Ho cominciato a dipingere abbastanza tardi nel senso che prima mi ero occupato di musica, suonavo in un'orchestra. Ho iniziato la pittura intorno al 1953-54 e dal 1955 al 1959 mi esprimevo attraverso il linguaggio della pittura informale come tutti i giovani pittori di quel tempo, ma poi cominciai ad eliminare molti elementi della pittura informale e a concretizzare di più il quadro e renderlo più razionale e più logico. Mi interessava maggiormente il rapporto con la superficie e guardavo alle “texture” di Dorazio e ai segni di Twombly e di Gastone Novelli. Con questo nuovo tipo di pittura e di ricerca espressiva mi trovai a contatto con altri pittori di Genova alla Galleria Numero proprio con gli artisti che lei ha citato nella sua domanda. Fu Eugenio Battisti che suggerì allora - visto che era l'epoca dei gruppi artistici come Gruppo N, Gruppo T, Gruppo Mid e Gruppo1 - Tempo 3 in quanto rappresentava il Terzo Tempo della pittura astratta, in quanto non consideravamo la pittura figurativa e neanche quella dell'astrattismo geometrico, del concretismo e dell'informale. La nostra pittura era il superamento di tutto questo, in particolare le nostre opere non erano espressione di una produzione geometrica né informale, ma teneva conto del segno come derivazione formale della costruzione del quadro che poteva appartenere in qualche modo al concretismo, ma in un differente modo espressivo. Mentre nel concretismo c'era l'assoluta fede nel quadrato e nella linea retta, nelle mie opere il quadrato non era mai perfetto e gli angoli erano un po' più o un po' meno di 90 gradi. A volte utilizzavo forme di semiquadrati in quanto le linee divaricavano e comunque erano forme semiaperte. Una lettura più difficile del semplice utilizzo del quadrato perché ho sempre pensato che la pittura doveva essere qualcosa “a lento consumo”; una pittura di visione, di interpretazione tale da permettere di cambiare un'opinione nella visione di un quadro perché ci si accorge che una linea, in un certo punto di vista, si presenta in una specifica condizione. Attraverso l'utilizzo di piccole variazioni che facevo sulle opere, si esprimeva l'idea di una tensione complessiva. L'opera doveva alla fine suggerire allo spettatore nuove emozioni, basandosi sulla costituzione di una superficie sempre molto vibratile e luminosa. Il colore era sempre in trasparenza e usavo le matite colorate leggere su un fondo bianco, in modo tale da ottenere dei segni molto trasparenti, anche attraverso la tecnica pittorica dell'acquarello. Questo procedimento pittorico iniziato nel 1962-63 rimane in tutti i miei lavori fino ad oggi e la mia ricerca è stata finalizzata alla variazione e alla definizione della tecnica pittorica.
Come si identifica nella sua produzione pittorica il passaggio da arte soggettiva ad arte oggettiva?
È possibile in pittura pensare ad un'opera come autonoma dalla realtà e quindi dallo stato emozionale dell'artista? Arte oggettiva e arte soggettiva... La mia partenza pittorica è sempre soggettiva; naturalmente il soggetto tiene conto dell'oggetto ed è semmai il fondersi delle due cose che fa nascere l'opera a cui il pittore va incontro.
Il rapporto tra colore e supporto è determinante per l'espressione visiva (pittorica) di un'opera. Ci può parlare del suo modo di esprimere pittura in riferimento al rapporto tra tecnica pittorica e supporto applicativo?
Il supporto che utilizzo è espressione fondamentale della mia opera. All'inizio della mia ricerca sul segno, sulla luce, sul colore leggero, usavo delle tele spesse di canapa che provocavano colori forti. Negli anni '64-'65 ho affinato molto il segno e ho comprato delle tele di cotone che preparavo prima del loro utilizzo, in quanto le tele che si acquistavano non avevano aderenza al segno della matita; facevo quindi una preparazione con il gesso acrilico per avere la possibilità di ottenere un segno leggero, un segno di trasparenza che si doveva percepire e non percepire, leggerissimo.
Negli anni '80 avvicinandomi di più all'acquarello, che usavo su tele che io preparavo, il colore macchiava la superficie della tela; quindi ho dovuto cambiare il supporto applicando sulla tela imbiancata una colla d'amido e poi delle carte di riso giapponesi, che in quel tempo si utilizzavano per il restauro. Ho utilizzato questo sistema pittorico in quanto l'acquarello si stendeva per piccoli tratti, avendo solamente leggere sbavature, che intaccavano la superficie di queste incollate su tela, creando un effetto di “morbidezza e luminosità”. Negli anni '90 ho abbandonato questo tipo di supporto perché era molto impegnativo, quindi sulla tela ho dovuto fare una diversa preparazione per avere la possibilità dell'utilizzo dell'acquarello; infine sono passato al supporto senza l'imprimatura, ma passando dell'acqua calda sulla tela grezza, con l'utilizzo del colore, in particolare la tecnica dell'acquarello, avevo la possibilità di ottenere “campi cromatici” molto sfumati e molto leggeri, in modo tale da permettere di inserire quegli elementi pittorici che erano in relazione con la luce bianca della tela. Questa identificazione che deve esserci ad un certo punto tra il pittore e l'opera che sta realizzando, non coincide con quanto il pittore ha in testa ma è l'opera stessa che suggerisce all'artista cosa fare. Ad esempio se utilizzo il colore giallo, questo mi suggerisce l'uso di un colore violaceo, perché complementare. Posso tenere conto di questa relazione cromatica oppure posso benissimo usare ad esempio il colore arancione, che nulla ha a che fare con la complementarità del colore giallo. Naturalmente tutte queste scelte sono soggettive, ed è l'artista stesso che si interroga continuamente su ciò che sta facendo e sul significato dell'opera. Posso definire il tutto come identificazione tra oggetto e soggetto, una miscellanea cromatica tra Pollock, Rembrandt o Rothko, quindi l'aspetto oggettivo e soggettivo dell'utilizzo del colore viene ad incrociarsi in modo naturale con quello che è il soggetto, e di conseguenza il mio io che deve tendere all'assoluto nella rappresentazione. Per ogni tipologia di carta cambio il sistema di pittura in riferimento anche al tema espressivo dell'opera; scelgo carte di un certo tipo se voglio esprimere un pensiero più intimo oppure altre se voglio esprimere un pensiero più esternalizzato. Il supporto per me è importante ed è fondamentale per la relazione sulle carte in quanto la mia è una pittura di superficie.
Lei ha dichiarato che nella sua pittura non procede per cambiamenti, ma costanti variazioni sul tema. Qual è il punto di arrivo di questo percorso/progetto pittorico?
Nel lavoro generalmente procedo per variazioni; se mi appassiono ad un certo tema definito dai ritmi di luce o ad un quadrato o a una variazione di angoli, proseguo la mia azione pittorica sempre per variazioni e sviscero il tema sino al possibile. Questo fa parte di un mio modo espressivo per “variazioni continue” ma sempre rimanendo fedele al tema iniziale. Non c'è mai un punto di arrivo di questo percorso che sto intraprendendo e quindi il mio procedere è un continuo viaggio di ricerca espressiva.
Il limite dell'arte del nostro tempo è la “perdita della memoria”. “Reinventare la memoria” è il tema della prossima Biennale d'Arte di Venezia curata da Vincenzo Trione. C'è una relazione tra la sua espressione pittorica come ricerca silenziosa di una memoria e quella del nostro passato?
Nel mio caso espressivo la “perdita della memoria” non c'è mai stata. Io considero il pittore un prestigiatore che estrae dal cilindro una volta un coniglio, una volta un mazzo di fiori, ecc... un po' come il dottore che ha nella sua valigetta tutti gli strumenti per la sua attività. Ad un certo punto nel quadro, in una zona particolare, e non ho ancora una scelta immediata per procedere, faccio riferimento a qualcosa che ho già prodotto e quindi la mia opera d'arte è sempre un rapporto con la memoria, utilizzando a seconda dei casi linee curve o espressioni calligrafiche che possono dare un senso al completamento di quella parte del quadro, ma il tutto attraverso un'emozione al fine di integrare la mia scelta pittorica di questa parte dell'opera con la sua totalità. Il risultato è anche il ricordo di un elemento pittorico che recupero e che definisco come adatto al completamento di ogni specifica opera. Anche l'uso del colore nelle mie opere è un riferimento ai colori del contesto in cui lavoro.
In una sua attuale mostra alle Gallerie Il Milione e Antonio Battaglia di Milano ci sono opere degli anni '90 con titoli che vanno oltre il dipinto, come: “Può essere così”; “Stanze di luce più accentuate”; “Strutture oblique”; “Verticalità di luci”. Qual è la relazione tra l'immagine e il titolo dell'opera?
I titoli delle opere li elaboro generalmente dopo che queste sono terminate. La scelta di un titolo mi impegna parecchio. Io non utilizzo numerazioni o opere senza titolo, ma per me il titolo deve avere una specifica attinenza con l'opera che ho fatto, e tante volte ho modificato il titolo per dare un significato maggiore al fine di integrarlo con l'opera stessa. Il titolo come fusione dell'opera: ad esempio un quadro che stava in posizione verticale non mi appagava. L'ho posizionato orizzontalmente, intervenendo come si dovesse rifare l'opera dandogli nuovi equilibri, e alla fine, quando mi sembrava ben riuscita, allora l'ho intitolata “Può essere così”, scrivendolo sul retro. Un altro titolo come “Stanze di luce accentuate” deriva dall'uso di particolari campi di luce. In realtà sono delle tende cromatiche verticali di un colore molto chiaro quasi impercettibile, a volte un po' più accentuato e a volte un po' più pallido, un po' più bianco. A volte il colore esce per contrasto, senza però mai utilizzare toni forti che non gradisco. Ecco perché ho messo quel titolo “Stanze di luce accentuate”: con la costruzione quel tipo di campo cromatico si accentua di più. Come dei neon, come delle linee bianche, e questo bianco non posso definirlo attraverso l'uso dell'acquarello, perché non è coprente, ma uso l'acrilico e quindi aggiungo piccoli segni di luce, successivamente più estesi, come nelle opere recenti. Un percorso pittorico che si fonda su una contaminazione tra la tela grezza e l'uso del bianco acrilico. Una relazione tra il colore grezzo delle terre, “colore avanina”, e il bianco sempre più deciso, mi permette di avere un bellissimo contrasto di “colore luce” e quindi una diversa pittura.
Ho visto nel suo studio che alcune opere hanno al loro interno la presenza di una scrittura. Può descrivermi questa sua scelta tematica?
Qui ritorno alla memoria: nel '62 mi ero accorto che sull'opera oltre al titolo e al luogo inserivo anche la firma, e quindi il tutto sembrava una frase e non delle parti disgiunte. Questa riflessione l'ho ripresa negli anni '70 e anziché scrivere in una parte dell'opera, inserivo delle linee tremolanti, una scrittura senza scrittura. Dagli anni '90 fino al 2000 sono tornato al recupero di questa scelta tematica. Attualmente faccio scritte sull'opera ma senza un significato semantico. È una trascrizione senza significato, altrimenti la gente non guarda più il quadro in sé ma cosa significa, e questo disturba e devia dal concetto dell'opera.
Thomas Mann diceva che “essere artista ha sempre significato possedere ragione e sogni”. Possiamo salutarci da questa piacevole intervista dicendo che la sua arte è un fantastico viaggio tra ragione e sogno?
Sì! Benissimo... all'americana si direbbe OK.
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