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Paolo Masi - Segno n.251

di Francesca Cammarata
 
La formazione di Paolo Masi avviene, intorno alla metà degli anni '50, all'Accademia d'Arte di Zurigo dove studia pittura; il suo percorso, ricettivo delle maggiori esperienze che hanno segnato il panorama artistico degli ultimi sessantacinque anni, resta pressoché fedele alla vocazione pittorica.
Fondato su un'instancabile volontà di sperimentare il lavoro di questo artista fiorentino si colloca sul versante non figurativo dell'astrattismo, lontano da qualsiasi ripiegamento intimista e attento all'esperienza visiva nel mondo reale. È un operare, quello di Paolo Masi, incredibilmente flessibile nella capacità di superare dettami, non più ritenuti in linea con nuove esigenze di indagine, senza tuttavia smarrirne la traccia. Sfogliare le monografie di Masi in compagnia dell'artista è un'esperienza emozionante per un giovane “addetto ai lavori”. La sua biografia, utile da conoscere per meglio comprenderne la poetica, assume tratti quasi mitici presentandosi emblematica di vicissitudini per eccellenza associati alla vocazione artistica. Procura un certo effetto per esempio immaginare le notti parigine accese dalle droghe e dal jazz nel periodo in cui l'artista, terminati gli studi, entra a contatto con l'ambiente tardo informale intriso di pensiero esistenzialista. Affascinante è la prosecuzione del racconto che evoca il contesto artistico milanese al tramonto dell'informale, quando, pur restando viva l'esperienza del MAC, la pittura inizia a dirigersi verso il suo grado zero e lo spazio sulla tela diventa elemento astratto, concetto. È il tempo in cui frequentando il Bar Jamaica si incontrano artisti come Castellani, Manzoni e Bonalumi immediatamente prima la nascita di Azimuth e Azimut e la discussione sull'arte è segnata dal dibattito su metodi e finalità. A incidere in modo più diretto sulla figura di Paolo Masi al suo ritorno nella città natale, tuttavia, è l'amicizia con Vinicio Berti, membro dell'Astrattismo Classico fiorentino, e la frequentazione di artisti come Pierluca, Fallani, Baldi, Verna e Guarneri assieme ai quali si allontana dall'informale per dirigersi verso una pittura più “concreta”. La scelta dell'astrattismo geometrico si collega tra l'altro all'interesse maturato durante il periodo accademico per le avanguardie russe, il De Stijl, il Bauhaus e il design. A ciò si può aggiungere la collaborazione, nei decenni successivi, con la galleria Schema di Firenze, che favorisce il contatto dell'artista con gli ambienti europei e americani, e poi, i numerosi viaggi e i rapporti con importanti gallerie italiane ed estere.
La mostra allestita a Bologna, alla galleria Studio G7, mette in evidenza i tratti che contraddistinguono l'opera e la poetica di Masi, rimasti costanti nel corso della sua carriera nonostante l'ansia di sperimentare da parte dell'artista. Osserviamo in questa esposizione un racconto unitario pur nella scelta di opere appartenenti a epoche differenti dove un astrattismo di segno razionale racconta l'esperienza della visione legata al proprio quotidiano; rappresentativo di ciò è il ciclo di fotografie Rilevamenti esterni, conferme interne del 1977. Questo motivo si collega all'interesse per la relazione tra l'uomo e il contesto in cui vive unito all'anelito per la diffusione dell'arte a cui riconosce una funzione sociale. È a partire da questo pensiero che l'artista offre un contributo attivo per la nascita a Firenze dei collettivi Zona nel 1974 e Base nel 1998. Il tema del confronto visivo con l'ambiente, esaminato anche sotto l'aspetto sociale, è riscontrabile nei Cartoni del 1974, eseguiti a partire da scatole recuperate presso magazzini e negozi. Qui Masi interviene con la pennellata, la matita, il graffio, la lacerazione al fine di esaltare i segni intrinseci del materiale. Ad assumere valore in questo caso è la struttura stessa del cartone, incluso lo spessore e la sua trama interna. Nei lavori più recenti, dove l'artista non si discosta dal tema sopra accennato, appare evidente in misura maggiore lo studio su spazio e colore; elementi costantemente presenti nella sua ricerca, separati come concetti ma spesso in simbiosi. Per questi lavori è utilizzato il plexiglas, uno tra i supporti più usati da Masi già dagli anni '60. Con l'ausilio di questo mezzo, spazio e colore si definiscono a vicenda, il primo attraversa la superficie, coinvolgendone lo spessore, l'area esterna all'opera, la parete a cui è adagiata, mettendo in relazione fra loro piani differenti. Lo spazio, nell'opera di Masi, è concepito durante gli anni '60 e '70 come luogo di costruzione all'insegna dei dettami neoplastici, frazionamento modulare e misurazione; in tempi più recenti definisce i volumi oppure diventa “ambiente” coinvolgendo l'area dove è collocato lo spettatore. Nelle opere in mostra, grazie al plexiglas, è luogo della simultaneità dove appaiono visibili al contempo diverse superfici colorate, diversamente trattate. Masi nel corso della sua lunga carriera rivendica la libertà di esplorare vari percorsi sia sul piano tecnico che conoscitivo. L'affermazione di tale esigenza non avviene in modo dichiarato o programmatico, ma nei fatti, dimostrando la non necessità di strategie e compromessi. La lezione di Masi fa comprendere come l'integrità e l'onestà intellettuale da parte di un artista siano sufficienti a giustificare qualsiasi scelta di percorso e a far sì che una produzione anche molto grande e variegata possa risultare al contempo omogenea.

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